venerdì 18 febbraio 2011

lunatica

“La luna di pomeriggio nessuno la guarda, ed è quello il momento in cui avrebbe più bisogno del nostro interessamento, dato che la sua esistenza è ancora in forse. E’ un’ombra biancastra che affiora dall’azzurro intenso del cielo, carico di luce solare; chi ci assicura che ce la farà anche stavolta a prendere forma e lucentezza? E’ così fragile e pallida e sottile; solo da una parte comincia ad acquistare un contorno netto come un arco di falce, e il resto è ancora tutto imbevuto di celeste. E’ come un’ostia trasparente, o una pastiglia mezzo dissolta; solo che qui il cerchio bianco non si sta disfacendo ma condensando, aggregandosi a spese delle macchie ed ombre grigiazzurre che non si capisce se appartengano alla geografia lunare o siano sbavature del cielo che ancora intridono il satellite poroso come una spugna. In questa fase il cielo è ancora qualcosa di molto compatto e concreto e non si può essere sicuri se è dalla sua superficie tesa e ininterrotta che si sta staccando quella forma rotonda e biancheggiante, d’una consistenza appena più solida delle nuvole, o e al contrario si tratta d’una corrosione del tessuto del fondo, una smagliatura della cupola, una breccia che s’apre sul nulla retrostante.” [da Palomar, Italo Calvino]

Ecco, come luna nel pomeriggio, quando il mutamento è palese, eppure non si colgono distintamente i termini della variazione; e spesso, quanto più clamoroso è lo scarto, tanto più ottusa la coscienza…

Nel settembre del 1973, ad esempio, l’infilarsi più o meno ordinato dei giorni, sembrò prevalere sulla violenza e l’abominio che pure s’imponevano: racconta questo Pablo Larrain in Post mortem, ennesima dimostrazione (dopo Tony Manero) di un teorema secondo il quale la miseria individuale e civile procedono complici e si nutrono a vicenda.

Teorema peraltro interessante oggi, in Italia, dove lo spazio pubblico e quelli privati dovrebbero entrare in stridente conflitto. Personalmente sento che gli spazi privati si fanno sempre più stretti, rattrappiscono e collassano su loro stessi, come accade al protagonista de La schiuma dei giorni di Boris Vian. La società civile è più che mai costituita di individui apolidi e i conflitti auspicabili stanno ancora cercando le parole per dirsi… Questo non è un paese per donne, e tantomeno per il pensiero dialettico.

Quanto sia decisivo il nominare le cose, poi, lo ha detto bene Celestini con La pecora nera.

L’inverno è freddo anche quando le temperature sono miti, e perciò c’è bisogno di calde consolazioni. Lo psicoterapeuta che tutti vorrebbero è ovviamente Clint Eastwood, che con Hereafter ancora una volta prende per mano, accompagna a pensare la morte, la separazione e il dolore come dicendo “su, coraggio…”, ed anche il pensiero razionale tira un sospiro di sollievo grazie alla potenza liberatoria del dubbio.

Pure l’amore non guasta, ed è dolciastra e triste e bella l’idea che possa sopravvivere persino all’evaporare dell’io, come accade ne La versione di Barney di R. Lewis. O che, se la sua assenza è mera e grigia ripetizione, l’amore possa essere la differenza, come in Wristcutters di G. Dukic…. Altro che i bacetti da post sophisticated comedy di Il truffacuori di P. Chaumeil e la debole piacioneria di Romain Duris (molto meglio cupo e sofferto nel forte Tutti i battiti del mio cuore di J. Audiard).

Se poi proprio si vuol sorridere, meglio ricorrere alla sexy-zantraglie nel palazzo dello spagnolo o ai sulfurei balletti nella solfatara di Passione di Turturro, che incappare nella piattezza insulsa di Parto col folle di T. Phillips. Migliore dell’ultimo visto – ci voleva poco - ma comunque lontano dai tempi d’oro di Gocce d’acqua su pietra rovente, l’ultimo Ozon, Potiche, si fa guardare e ogni tanto fa anche ridere. Discutibile per scelta e disturbante forse per convenienza, ma tuttavia intrigante, il massacro tra i ghiacci di Kill me please di O. Barco. Semplicemente agghiacciante invece, d’inverno come d’estate, il delirio registrato e raccontato nel documentario This is my land… Hebron di G. Amati e S. Natanson. E dopo lo schiaffo della dura realtà la sola terapia è farsi accogliere dalle lenzuola sfogliando le tavole di Manuele Fior, Cinquemila chilometri al secondo, dove l’esplosione cromatica segna il binario di un lungo viaggio, fatto ancora una volta di salti fra lo spazio e il tempo come in Rosso oltremare, ma meno simbolico e fors’anche più commovente.

That’s all folks!




lunedì 14 febbraio 2011

società civile





napoli 13 febbraio 2011