martedì 16 novembre 2010

verrà l'amarezza e avrà i tuoi occhi

Sarà questione di karma o di casualità, ma sembro inciampare solo in narrazioni di fallimenti e tristezze, che tanto bene accompagnano umori e pensieri del momento….
Sulla carta non è difficile immedesimarsi col goffo Yeti di Alessandro Tota, che gira, si innamora e s’ubriaca in una Parigi molto familiare, di cessi sul pianerottolo e lavoro precario. Il colore si spalma compatto, un po’ piatto, sulle tavole, e la profondità è tutta negli occhi bianchi di Yeti. A quanto pare non c’è riscatto dall’emarginazione, non c’è luogo in cui sentirsi a casa, per quanto si rattrappiscano le aspettative; o forse la ripresa è possibile, ma per gli altri.
In questa chiave di frustrazione non ho potuto fare a meno di leggere anche il ***** [non ci si può lasciar andare all’uso di aggettivi quali superlativo e strepitoso, suvvia] Vangelo secondo Gesù Cristo di Saramago: mi sono lasciata appassionare e commuovere, ho riso dei meravigliosi anacronismi, delle provocazioni al lettore, ma, su tutto, sono stata schiacciata dall’esercizio di violenza ineluttabile che travolge Gesù. Adesso seguo le vicende, a cavallo degli anni e della storia, di Auxilio Lacouture, nell’ Amuleto di Roberto Bolaño. E anche qui mi pare di trovare la morte in agguato ad un angolo di strada e tanta solitudine per una donna madre di tutti, addirittura della poesia messicana, ma che perde i denti e parla nascondendosi la bocca con la mano…
In una struttura coerente anche il cinema contribuisce: l’ingiustamente trascurato L’illusionista di Sylvain Chomet, rielaborazione di una sceneggiatura di Tati, mette vecchio e nuovo a confronto, realizza un’animazione d’antan, per tecnica e gusto estetico, per raccontare di un uomo che, dopo un ultimo guizzo, affronta rassegnato il passare del tempo, il mutare dei costumi e dei gusti, la propria vecchiaia. Memorabile la sequenza di Taticheff nella sala in cui proiettano Mon oncle.
Di tutt’altra natura e tenore la disperazione di Animal Kingdom, epopea familiare australiana di David Michôd, in cui l’immagine fa di tutto per incarnare la sporcizia morale dei personaggi, a mio avviso guardando – bene - alla lezione di Van Sant.
A singhiozzo di queste emozioni, episodi di trascurabile medietà: Fair game di Doug Liman, che se ne sta tutto tondo e concluso, prodotto della migliore scuola, con i suoi attori impeccabili e il ritmo serrato; Miral di Julian Schnabel, che fa seguire ad un primo tempo più azzardato visivamente un secondo un po’ lento e retorico; Cattivissimo me in 3D, non all’altezza dei suoi predecessori anche se intriso di spirito del tempo; Gorbaciof di Stefano Incerti che vabbé che Servillo é un padreterno ma… non è facile raccontare credibilmente la conversione morale di un uomo clamorosamente senza qualità (e infatti il film fallisce). Altrettanto fallimentare, ma con aggiunta di squallore e arroganza registica, è L’amore buio di Antonio Capuano: un film che racchiude in sé, involontariamente, tutta la pochezza etica di quelli che a Napoli dovrebbero essere intellettuali (ma forse devo ammettere che tanto livore non è solo conseguenza della pellicola quanto del successivo incontro col regista).
E quest’é. Fuori continua a piovere e far caldo, quasi a voler subdolamente suggerire che siamo fuori tempo e fuori luogo, che dietro l’umidità grigia possa esserci dell’altro che, tuttavia, sfugge.

domenica 17 ottobre 2010

oh, darling!

domenica 3 ottobre 2010

risvegli




“…Casco dal sonno, ossia “io” cado, “io” non sono più, o piuttosto, “io” non “è” più se non nella cancellazione della sua stessa distinzione. Ai miei propri occhi, che non guardano più niente, che sono rivolti verso se stessi e il punto cieco in loro, “io” non “mi” distinguo più. Se sogno di azioni e parole di cui sono il soggetto, è sempre in modo tale che la soggettività non si distingue più o si distingue a malapena da ciò che, al tempo stesso, vede, intende o in genere percepisce. Questa è infatti la singolarissima coscienza del sogno: si pensa e non si pensa coscienza di un mondo che le sarebbe opposto, come è quello della veglia.” […]

“Quale sé vi si dà da scoprire! Caduto dalle supposte altezze della coscienza vigile, della sorveglianza e del controllo, della proiezione e della differenziazione, ecco un sé reso al suo moto più intimo: quello del ritorno in sé. Che cos’è infatti questo “sé” se non “a sé”, “per sé”? Sé che si rapporta a sé e ritorna a se stesso per essere ciò che è: “sé”. “Io” non fa un sé, perché “io” non fa ritorno: io, al contrario, fugge, sia rivolgendosi al mondo sia ritirandosi da esso, ma è proprio per perdere la sua puntuale distinzione di “io” (ossia anche di “tu”, o ancora beneficiario di un “noi” o di un “voi”). Io casco dal sonno e, al tempo stesso, mi cancello in quanto “io”. Io casco in me e me cade in sé” […]

“Non essere più proprio, non essere più propriamente nel rapporto della proprietà di sé ma, più profondamente e oscuramente, essere di sé in modo tale che la questione del “proprio” tende a cancellarsi (sono proprio io? Sono propriamente ciò che io sono, ciò che ho da essere?): questo implica il dormire in quanto richiede il dissolvimento della domanda e dell’inquietudine che la anima.”[1]

“- Tutti dormono, Mr Worth. Spero non voglia tentare di convincermi, né ora né in futuro, di non aver mai dormito negli ultimi dodici anni.

- Ho dormito ben poco – disse Terry. Magari lei dirà che me lo sono immaginato. che l’ho sognato o non so che altro ancora. Ma si può sognare di non dormire?

- Certo. Succede piuttosto spesso.”[2]

Quanto sonno a settembre… Nel romanzo di Coe ci sono sogni che guidano un’intera esistenza fino a modificare la carne, allucinazioni, eventi che si concatenano rispondendo ad una regola del gioco che viene offerta al lettore. Il tutto calato in un torpore sonnolento che contagia il paesaggio e i protagonisti. Il sonno procede per stadi finché, nella fase rem, le pulsioni trovano espressione e i desideri s’appagano. La precisione, quasi macchinica, del ritmo, aggancia nella lettura ma poi, dopo, lascia un residuo amaro.

Lo stesso Coe dà vita ad un congegno narrativo altrettanto efficace ma più emozionante in La pioggia prima che cada. Fallisce invece in Circolo chiuso, che più che chiuso è claustrofobico.

Altrettanto chiuso è il giocattolo di Inception, dove Nolan, a patto di abbandonare ogni personale paradigma sulla natura del sogno, costruisce un’architettura di coerenze interne, di precisioni millimetriche e suggestive, due ore e mezza di matrioska (pseudo)onirica. Il film è bello, anche nelle sue scene d’azione – con buona pace dei detrattori – e forse il solo paradosso è nel margine di creatività lasciato all’interno di un universo le cui regole di autoproduzione sono tanto rigidamente enunciate.

Molto più creativa è parsa la follia, tardivamente recuperata, dello stesso Di Caprio nelle brume di Shutter Island, con la fotografia, quella sì, veramente onirica…

Gli incubi peggiori, in ogni caso, sono i sogni ad occhi aperti, come sembra suggerire, con la sua formulazione classica, verrebbe da dire “solida” se non fosse abusato, The american.

C’è poi il di-sperato protagonista di My son my son what have ye done (un film di Herzog? di Lynch? difficile stabilire quale presenza sia più forte, se quella del produttore o del regista), che vorrebbe partire “In luna di miele sulla luna”, inchiodato al centro del palindromo, in una ricerca, fallita in partenza, di senso, di direzione interpretativa, di cadrage. Ma al mattino, con la tazza del caffè in mano, non ci sono risvegli possibili…

…anche perché, come suggerisce Nolan, il risveglio è nella caduta e allora il cerchio si chiude, cascare dal sonno e cascare dal sonno, con un limbo di sé indistinto in agguato, alle soglie della nostra veglia…





[1] Jean-Luc Nancy, Cascare dal sonno, Raffaello Cortina editore 2009.

[2] Jonathan Coe, La casa del sonno, Feltrinelli 2009.

giovedì 2 settembre 2010

summertime


Nel 1982 c’era una cittadina sul mare, un filo di costa bordato di pini curvi sull’acqua; c’era una bambina di quattro anni, Marina, che giocava con una bambina di sei, le raccontava dei litigi con la madre, di piccole malefatte e punizioni, di un dito tagliato affettando il pane… lo raccontava nella sua lingua slava, l’altra bambina rispondeva in italiano in una comunicazione incomprensibile agli adulti. C’era la pensione della madre di Marina, una casa bianca con una scala esterna, un bar al piano terra e il mare appena di fronte. C’erano cartoline delle vacanze affrancate con l’effigie di un maresciallo morto due anni prima. C’era un ristorante con un melograno nel cortile, risotti al nero di seppia, serate tiepide e sonnolente dopo ore di sole, polpettine speziate, parole straniere da balbettare vezzosa. C’era un ponticello sul mare dove guidare cauti.

Oggi c’è una cittadina sul mare, lo stesso filo di costa bordato di pini, interrotti da grandi alberghi, squallidi esperimenti architettonici simili ad arnie. Non c’è più la pensione della madre di Marina, di cui sembrava tanto fiera, il suo bar, la strada da attraversare per raggiungere il mare. “In 1992, you know…” cerca di spiegare un vecchio signore, abbassando un momento lo sguardo. Tutta la strada non esiste più, non c’è il ponticello sull’acqua ed ora si circola a doppio senso sulla nuova colata d’asfalto, che conduce ai nuovi alberghi le nuove folle di turisti (turisti da paesi che nel 1982 non si incontravano spesso, da paesi che nel 1982 non esistevano neppure).
C’è ancora il ristorante, il suo proprietario dagli occhi azzurri. C’è ancora il melograno….

“In 1992, you know…” No. Non so proprio nulla. Non sapevo nulla nel 1992 quando vedevo la cittadina bombardata in tv, non sapevo nulla oggi, sul ponte di Mostar ricostruito, mentre scrutavo i buchi delle granate nelle pietre centenarie precipitate nell’acqua. Non so nulla dell’emozione ottusa di dolore provata.
Non so nulla del senso di colpa per tanto effimero sgomento. Non so nulla della guerra che passa in tv e scivola via. Non so nulla perché, forse, non c’è cognizione possibile…. Perché capire significa accogliere in sé, e allora il rifiuto è forse più sano…












mercoledì 4 agosto 2010

dei rapporti di potere

Dimmi perché ti desidero ancora, perché il tuo nome ritorna
come l'ascia alla ferita in una amara visita di mezzanotte,
ai bordi di un cimitero dove larve moltiplicano
umide bave, infinito inventario di goffagini,
dimmelo dal nulla dietro cui adesso ti barrichi, dimmi
perché mi basta comporre un meccanismo elementare di sillabe,
digitare nel cuore della nebbia le cifre del tuo nome
per essere nella solitudine
sopraffatto dalla speranza di una impercettibile migrazione di dita nei miei capelli,
di una fraganza in cui abita il muschio.
(J. Cortàzar, Aftermath)

venerdì 23 luglio 2010

the river

Lasciar languire un blog non è certo una bella cosa. Tuttavia le cose accadono, cadono, precipitano e le parole non gli stanno dietro. Anche perché nominare sarebbe individuare, conoscere… E invece ci sono flussi in cui trovarsi immersi, con l’acqua alla gola. A sedimentarsi solo emozioni brute, sul fondo. Un fondo melmoso in cui è difficile sostenere il registro di una scrittura pubblica senza scivolare, inciampare, impantanarsi nelle pieghe dell’intimità…
Dopo tante settimane dovrei iniziare con dei ringraziamenti, in ordine sparso. Il primo va ad un romanzo così potente da fare della lettura in certi passaggi un’esperienza fisica, tattile, disturbante: Santa Mira di Gabriele Frasca. Romanzo che fa desiderare l’amicizia per condividerlo e parlarne… (con tutto il pudore di pensare al volto dell’autore via via che proseguivo).
Seguendo la scia di più associazioni possibili, ma soprattutto quella di una più ampia gratitudine, le linee nere di Luk con Refusenik, che hanno aperto una faglia nel pensiero (riuscirò a saltare abbastanza in là? bella domanda…. mi sto impantanando). Ciò che più mi piace è il racchiudere nel bianco, là dove la punta di pennarello/pennello non si posa, spazio, colore, temperatura… Peccato debba essere privilegio per pochi/giubilo nell’elezione…
… seguendo il greto del fiume, il colore c’è, ma tradisce la linea per farsi altro in Rosso oltremare, di Manuele Fior: nello sdoppiarsi delle vicende il filo continuo di un corpo che attraversa il tempo, con la sua essenza greve.
E ancora il corpo e il suo maldestro posizionarsi nel tratto, solo apparentemente più intellegibile, di Alfred, Non morirò da preda.
Anche a volersi storioni, non è sempre caviale (reminiscenza di stolte letture adolescenziali) e si incappa in soggetti meno intriganti, come il Blotch di Blutch. Ma poi, per fortuna, Etienne Schréder racconta in bianco e nero le sue Amare stagioni.
L’idea del corpo, la sua immagine, unica zavorra, mi suggestiona anche al cinema. Ed è per questa ragione che la Ragonese, col suo sorriso sottile e di lana vestita, in Dieci inverni, mi illanguidisce (al pari della bislacca ma accattivante ipotesi che due corpi possano cercarsi nel tempo, schivarsi, perdersi altrove e ritrovarsi in un qui sospeso nel dopo).
Ancora il corpo, i corpi, il sesso sembrano essere l’unica via di fuga, in primo luogo da un sé represso e smarrito, in Io sono l’amore di E. Gabriellini (certo, quando il corpo è quello diafano e sfuggente di Tilda Swinton tutto appare più facile, anche digerire la lentezza e l’incongruente).
E dopo, recuperando, precariamente, la riva, guardando allo specchio dell’acqua:
Bilan
Alla fine non rimane che distanza,
stili, sciocchezze affettuose,
e sempre di più qualcosa di meno, miseria
in cui tuttavia si sta comodi.
Sempre di meno qualcosa di più.
Vita,
pantaloni con toppe alle ginocchia,
pianticella di lattuga agliata
per la cocorita
(Julio Cortázar, Ultimo round, trad. di E. Mogavero)
Sembrerebbe indispensabile, per chiudere, poter condividere un sapore, come quello della birra amara, o un suono…. ah, ma quello si può:

martedì 15 giugno 2010

a parole sue

è passato di tutto. la primavera la morte la rabbia il panico lo sgomento il sollievo gli amici le case le cose i denti le pellicole. resta molto, ma non le parole per dirlo. e allora tanto vale... a parole sue


sabato 27 marzo 2010

che fretta c'era maledetta primavera

Sempre più difficile tenere il passo e scrivere, tra lavoro e inquietudini. Sono passati un certo numero di film, ma non quanti avrei voluto. Partiamo dall’ultimo, l’ultimo Ozpetek (Le mine vaganti), che dopo essersi lasciato andare a insopportabili drammoni ha fatto un film corretto, molto malinconico sotto la commedia, misurato ed emozionante, con attori che appaiono più belli e più bravi del loro solito (la metà viene dalla fiction).

Ottimo giro di cineforum che ha proposto un Loach meno senile (Il mio amico Eric), indubbiamente consolatorio ma che non tralascia durezze (fino a che punto può essere consolatoria la schizofrenia?).

Ha fatto seguito il decisamente più faticoso Welcome di Philippe Lioret: il suo peggior limite è nella recitazione gommosa di Lindon, all’interno di una storia dalla durezza senza sconti, che ne è invece il maggior pregio.

Giustamente divertente poi, su una struttura da commedia molto classica, il tedesco Soul Kitchen di Fatih Akin, con una menzione speciale ai titoli di coda.

Televisivamente è tempo di attesi ritorni. Riprende Dexter, che alla quarta stagione riesce ancora a trovare spunti fortunati e appassionanti. Riparte anche Flash forward, dopo la bizzarra pausa di tre mesi, e inizia a sciogliere, in modo convincente, alcune delle questioni che si erano un po’ pesantemente accumulate nei primi dieci episodi.

E’ ricominciato anche Boris, che in questa stagione pare insistere di più sulla pretesa qualità televisiva: la tenuta comica c’è, ma inizia ad essere ripetitiva. Ha decisamente deluso, dopo un pilota promettente, Bored to death, mentre invece, sebbene la sit-com non potrà mai essere il mio genere d’elezione, inizia a piacere il recuperato My name is Earl, il cui protagonista dal fascino gonzo si muove in una fotografia che richiama il compianto Malcolm.

Citazione del mese: “Il mondo deve essere abbastanza grande per contenere ogni mio errore”

Colonna sonora:

giovedì 28 gennaio 2010

upgrade (l'inizio dell'anno è iniziato da un pezzo)

Bisognerebbe scrivere e bisognerebbe lavorare. Bisognerebbe impegnarsi, nelle azioni di routine e negli sguardi alle persone che ci stanno intorno, spesso attonite, a volte sofferenti. Bisognerebbe smettere di arrancare ad essere ciò che non si riesce, ciò per cui non si ha la stoffa. Ma bisognerebbe anche darsi tregua, darsi fiato, darsi tempo, darsi cura, ogni tanto…

Folioterapia, rannicchiandosi tra le pagine quando Fuori è troppo altro, troppo grande e minaccioso.
Una donna spezzata di Simone de Beauvoir, ad esempio, per camminare a passi lenti sulla via del tradimento, della narrazione di sé smentita e mortificata, delle proprie certezze messe alla berlina.
Probabilemente lei, con la sua buona educazione e un bel paio di stampelle ideologiche, una via di fuga dalla solitudine la vedeva, alla fine del dolore, una celata possibilità di essere madre o compagna anche oltre clichés… Fatto sta che sono trascorsi più di quarant’anni, che le nostri madri hanno probabilmente perso la partita con gli ideali, con i loro compagni più deboli oggi di ieri…
“Mi sono messa a piangere sulla sua spalla; lui mi accarezzava i capelli.
- Non piangere, non voglio che tu sia infelice. Ti voglio tanto bene.
- Mi hai detto che non mi amavi più da otto anni.
- Ma no. Te l’ho detto, che non era vero. Ti voglio bene, moltissimo.
- Ma non mi ami più d’amore?
- Ci sono tante specie d’amore.
Ci siamo seduti, abbiamo parlato. Io gli parlavo come a Isabelle o a Marie Lambert, con confidenza, con amicizia, con distacco: come se non si fosse trattato di noi, della nostra storia. Era un problema che discutevamo, imparzialmente, gratuitamente, come avevamo discusso di tanti altri. Io mi sono di nuovo stupita del suo silenzio durato per otto anni. Lui mi ha ripetuto:
- Dicevi che saresti morta di dolore…
- Eri tu che me lo facevi dire: l’idea di un’infedeltà sembrava darti una tale angoscia…
- Infatti mi angosciava. E’ per questo che tacevo: perché tutto continuasse come se non ti tradissi… era un fatto magico… e poi, naturalmente, mi vergognavo…”

Quanto a donne in difficoltà c’è stato anche, di passaggio, La passione di Artemisia di Susan Vreeland.
Dopo tante lacrime sono tornata ai classici, ché l’ironia di Sterne mi traesse in salvo (La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo), ricollocando le inezie quotidiane nelle giuste proporzioni di un quadro più ampio e variegato… [ma non è ancora finito].
Battuta d’arresto sulle figure: L’uomo che cammina di Taniguchi è troppo serafico per questi giorni inquieti e forse mi riconosco più facilmente nel Gourmet che indaga sapori, come a riempire un vuoto enorme (nel volumetto economico Repubblica di qualche stagione fa).
E poi, finalmente, è stato pubblicato in Italia (oh, quanto l’avevo atteso!) Chris Ware: Jimmy Corrigan, il ragazzo più in gamba sulla terra non può esser detto, va letto e basta.

Dovendo prima o poi mettere il naso fuori, si può addirittura scoprire un bel film italiano, che non segue necessariamente le soluzioni visive e narrative più scontate: La doppia ora di Giuseppe Capotondi. Delude invece zio Sam con un Mondo dei replicanti un po’ stucchevole, e non convince del tutto la perfida Albione, con una rilettura di Sherlock Holmes un po’ troppo vitaminica, che guarda a Gregory House (a detta di Roberto), ma con buon ritmo e discrete scenografie (digitali).

Colonna sonora dei tradimenti: