venerdì 23 luglio 2010

the river

Lasciar languire un blog non è certo una bella cosa. Tuttavia le cose accadono, cadono, precipitano e le parole non gli stanno dietro. Anche perché nominare sarebbe individuare, conoscere… E invece ci sono flussi in cui trovarsi immersi, con l’acqua alla gola. A sedimentarsi solo emozioni brute, sul fondo. Un fondo melmoso in cui è difficile sostenere il registro di una scrittura pubblica senza scivolare, inciampare, impantanarsi nelle pieghe dell’intimità…
Dopo tante settimane dovrei iniziare con dei ringraziamenti, in ordine sparso. Il primo va ad un romanzo così potente da fare della lettura in certi passaggi un’esperienza fisica, tattile, disturbante: Santa Mira di Gabriele Frasca. Romanzo che fa desiderare l’amicizia per condividerlo e parlarne… (con tutto il pudore di pensare al volto dell’autore via via che proseguivo).
Seguendo la scia di più associazioni possibili, ma soprattutto quella di una più ampia gratitudine, le linee nere di Luk con Refusenik, che hanno aperto una faglia nel pensiero (riuscirò a saltare abbastanza in là? bella domanda…. mi sto impantanando). Ciò che più mi piace è il racchiudere nel bianco, là dove la punta di pennarello/pennello non si posa, spazio, colore, temperatura… Peccato debba essere privilegio per pochi/giubilo nell’elezione…
… seguendo il greto del fiume, il colore c’è, ma tradisce la linea per farsi altro in Rosso oltremare, di Manuele Fior: nello sdoppiarsi delle vicende il filo continuo di un corpo che attraversa il tempo, con la sua essenza greve.
E ancora il corpo e il suo maldestro posizionarsi nel tratto, solo apparentemente più intellegibile, di Alfred, Non morirò da preda.
Anche a volersi storioni, non è sempre caviale (reminiscenza di stolte letture adolescenziali) e si incappa in soggetti meno intriganti, come il Blotch di Blutch. Ma poi, per fortuna, Etienne Schréder racconta in bianco e nero le sue Amare stagioni.
L’idea del corpo, la sua immagine, unica zavorra, mi suggestiona anche al cinema. Ed è per questa ragione che la Ragonese, col suo sorriso sottile e di lana vestita, in Dieci inverni, mi illanguidisce (al pari della bislacca ma accattivante ipotesi che due corpi possano cercarsi nel tempo, schivarsi, perdersi altrove e ritrovarsi in un qui sospeso nel dopo).
Ancora il corpo, i corpi, il sesso sembrano essere l’unica via di fuga, in primo luogo da un sé represso e smarrito, in Io sono l’amore di E. Gabriellini (certo, quando il corpo è quello diafano e sfuggente di Tilda Swinton tutto appare più facile, anche digerire la lentezza e l’incongruente).
E dopo, recuperando, precariamente, la riva, guardando allo specchio dell’acqua:
Bilan
Alla fine non rimane che distanza,
stili, sciocchezze affettuose,
e sempre di più qualcosa di meno, miseria
in cui tuttavia si sta comodi.
Sempre di meno qualcosa di più.
Vita,
pantaloni con toppe alle ginocchia,
pianticella di lattuga agliata
per la cocorita
(Julio Cortázar, Ultimo round, trad. di E. Mogavero)
Sembrerebbe indispensabile, per chiudere, poter condividere un sapore, come quello della birra amara, o un suono…. ah, ma quello si può: