Con circa un anno di ritardo, e per di più su piccolo schermo, vedo Gomorra. Il film mi piace. Mi era piaciuto anche il libro. Ma sono due cose radicalmente diverse, ben oltre l'evidenza del medium. Il libro mi sono ritrovata a difenderlo in interminabili discussioni, precisando che non lo trovavo per nulla ben scritto, che i passaggi con maggiori aspirazioni letterarie erano davvero brutti ma che, anche se raccontava realtà già messe in luce da altri lavori, forse migliori, la vera qualità di Saviano credevo fosse nel suo stesso limite: una scrittura un po' dozzinale e talvolta sensazionalistica, che ha fatto sì che il libro piacesse a decine di migliaia di persone, rendendo possibile una diffusione dell'informazione di portata inattesa e inaudita*. Fermo restando poi il teorema di fondo (teso a smantellare l'ipocrisia di quella borghesia più o meno illuminata che ama deresponsabilizzarsi dietro mistificatorie linee di confine tra bene e male, legalità e illegalità): la camorra è prima di tutto business e il sistema d'affari si articola in una concatenazione di attività legali e delinquenziali in cui tutto il sistema economico è coinvolto.
Tutto questo nel film non c'è (ad eccezione, forse, della linea narrativa di Pasquale). E tuttavia c'è molta più narrazione. C'è anche un'estetica dello squallore con cui Garrone lavora sin da L'imbalsamatore. Ma questa volta, come non in passato, mi ha convinto. Probabilmente perchè di fronte alla forza di ciò che si trova a raccontare, invece di esasperare lavora per sottrazione; e forse per l'effetto alienante della lingua, faticosamente seguita anche da chi come me il dialetto lo frequenta, e che si fa metafora della fatica di accettare, più che comprendere, ciò che l'immagine sbatte in faccia.
Nel riconoscere i luoghi, lo skyline delle vele come le pinete tra Mondragone e il villaggio Coppola, nell'ascoltare le stesse canzoni che ogni mattina, inopinatamente, arrivano a svegliarmi dalla radio della vicina, non ho potuto non chiedermi che emozioni suscitassero in chi vive la libertà di sentire tutto ciò esotico, laddove io lo riconosco e al tempo stesso lo rinnego, lo subisco, spesso, eppure lo avverto alieno: quanto mi riguarda tutto ciò? Quanto ci riguarda? Esiste poi questo
ci? Questi pensieri si sono riallacciati, in un crescendo di disagio, ai ricordi di sabato scorso, quando ho trascorso l'intera mattina muovendomi in auto nello sconcertante degrado tra Afragola, Casoria e aree limitrofe, dove le arterie stradali solcano terreni incolti, discariche a cielo aperto, conducendo a centri commerciali tutti simili tra loro, sorti nell'arco di un decennio, moltiplicatisi come da spore su quella terra intossicata. Nuclei vicini eppure separati da un vuoto che solo le automobili possono tagliare, poichè non c'è vivibilità fuori dell'abitacolo privato, non c'è sicurezza, non c'è alternativa. L'immagine agghiacciante di una modernità nata obsolescente, dove ci si perde, si gira a vuoto, perchè i segnali sono troppi, troppo piccoli, troppo diversi, perchè non c'è logica nè orientamento, nè cosa pubblica.
Ed ecco ancora la sensazione di non saper posizionarsi: percepirsi isolati nella folla del centro commerciale, gettati e fragili sulla striscia di asfalto, assenti a sè stessi nella riflessione, atrofizzati e impossibilitati nell'agire collettivo, frustrati nella rappresentanza politica. Ancora incapaci di volgere lo sgomento in ragione, la rabbia in gesto, l'emozione in parole....
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ammetterò una nota sprezzante in queste affermazioni, ma siamo pur sempre il paese in cui, anche leggendo poco, si è concesso che la tamaro e baricco diventassero best seller...